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la traversata della Groenlandia con gli sci

La traversata della Groenlandia con gli sci

 

Questa settimana ho il piacere di presentare un’esperienza di viaggio , a dire poco avventuroso, tratto dal libro di un nostro lettore ed amico, che ci ha dato ok per la pubblicazione,Giangi Fasciolo, Istruttore Nazionale di Sci-Alpinismo.

 

“Dal mio libro, racconto della traversata della Groenlandia con gli sci, luglio 1988”

 

Una sera di gennaio mi telefonò, mentre ero già a dormire, il mio amico Franzin, di Milano; mi disse, senza mezzi termini, se volevo andare in Groenlandia nel mese di luglio, per partecipare ad una spedizione organizzata dalla rivista Sciare. Non sono abituato a pensarci molto riguardo alle decisioni importanti, dopo qualche secondo di intenso silenzio gli dissi di si e gli augurai buona notte.

Non dormii molto quella notte, ormai non potevo più tirarmi indietro, cominciavo a pensare in quale guaio mi ero infilato, la necessità di intensi allenamenti, un lungo mese in ambiente ostile, il rischio dell’incontro con l’orso, e inoltre avrei potuto prendere un periodo di ferie così lungo?

Nei giorni seguenti parlai lungamente con Franzin e con Massimo Di Marco, il direttore della rivista Sciare, e fui messo al corrente dell’ambizioso programma: si sarebbe trattato di fare la traversata della Groenlandia con gli sci, dalla costa est alla costa ovest, 500 chilometri, nel centenario della prima impresa fatta dal norvegese Fridjof Nansen nel 1888. La vittoria di Nansen e dei suoi compagni aveva rappresentato anche il trionfo dello sci. In pratica lo sci sportivo era nato cento anni prima e la rivista Sciare, la più importante in Italia, non poteva farsi scappare questa occasione e aveva deciso di sponsorizzare la spedizione.

Il nostro gruppo era formato da Giuseppe Cazzaniga, guida alpina, capospedizione, Anna Bianco, istruttore nazionale di alpinismo, Maurizio Dalla Libera, istruttore nazionale di sci-alpinismo, addetto alle comunicazioni radio, Vanni Spinelli, guida alpina, Giulio Beggio, guida alpina, e il sottoscritto, istruttore nazionale di sci-alpinismo, medico e ufficiale di rotta. Non ricordo chi mi abbia affibbiato l’incarico di occuparmi della rotta, so soltanto che fui costretto ad imparare l’uso del sestante, infatti volevamo usare gli stessi strumenti che usò Nansen, rifiutammo quindi il satellitare, strumento ormai in uso nella grandi traversate.

Contattai il comandante Sarno, esperto capitano di mare, il quale per alcuni mesi mi fece lezioni sulle tavole delle effemeridi, sull’orizzonte artificiale, sui vari angoli del sole, sulla declinazione magnetica. Mi sembrava di essere diventato un perfetto navigatore, ma tutto non filò così liscio come avrò occasione di raccontare. Ormai ero già con la mente in Groenlandia, alternavamo allenamenti a secco con frequenti viaggi a Milano per misurare i vari capi di abbigliamento, scegliere gli sci, provare gli scarponi. La parte alimentare era curata dalla ditta Enervit, la quale ci preparò, sulla base delle nostre indicazioni, una serie di buste liofilizzate per la prima colazione, i viveri di cammino e la cena.

Oltre a questi impegni organizzativi, ovviamente andavamo in montagna: la traversata dei monti Sibillini assieme ad alcuni istruttori della scuola, il giro del Catinaccio d’Antermoia con il gruppo della spedizione; in quell’occasione provammo alcuni tipi di slitte che avremmo trainato in Groenlandia, collaudammo anche una piccola vela da montare sopra se ci fosse vento favorevole. La Pointe Lamet al Moncenisio, con la discesa in sci della ripida seraccata centrale. L’Uia di Ciamarella in valli di Lanzo, con bivacco fuori dalla porta del rifugio Gastaldi perché avevamo perso le chiavi!

Il 20 giugno venne il grande giorno: volo da Milano per Copenaghen, quindi a Reikiavik in Islanda e quindi su un piccolo aereo Mitsubishi da dieci posti arrivo alla sera in Groenlandia nel piccolo e bellissimo paese di Angmassalik.

Ero emozionato, il paesaggio era lo stesso che vidi nel 1983, nella precedente spedizione, stesso clima freddo, le stesse case colorate di legno, le barche immobili nella baia, alcuni icebergs che sembravano ancorati al largo e cani abbaianti e puzzolenti dovunque. I bambini mi sembravano aumentati, spuntavano da ogni parte, ci portavano fiori e uccellini implumi, presi chissà dove, noi offrivamo bresaola e biscotti. Di fronte ad alcune case c’erano quelle vecchie slitte tradizionali che venivano trainate in inverno dalle mute di cani, sembravano ancora in buone condizioni, e probabilmente facevano ancora il loro dovere, anche se ormai le motoslitte cominciavano a rimpiazzare il vecchio sistema di trasporto nordico. Le foto si sprecavano; mentre aspettavamo l’arrivo dei bagagli e delle nostre slitte, giravamo per il paese e nei dintorni fotografando ogni cosa, il paesaggio era veramente magico e unico, e ogni tanto salivamo su piccole colline sperando di intravedere l’Inlandsis, la calotta glaciale, ma altre colline innevate chiudevano lo sguardo.

Anna teneva il diario, nei primi giorni era un po’ pessimista, infatti i nostri bagagli, che erano stati caricati su un volo cargo, non erano ancora arrivati, e stavamo perdendo giornate preziose; più tardi si partiva, più tardi si arrivava, e si rischiava di andare verso la fine dell’estate con l’arrivo delle temute perturbazioni polari. Scriveva Anna: – non si sa se domani arriverà un cargo con priorità per il nostro materiale. Forse si deve aspettare fino a lunedì prossimo; è meglio una partenza alternativa? Mister Nilsen, (il boss del paese) ci dà tragiche informazioni sull’uso del gas e sulle condizioni degli ultimi 50 chilometri di traversata: laghi enormi di acqua di fusione e crepacci immani. Non si dimostra particolarmente incoraggiante.-

Finalmente il 27 giugno partimmo, con 500 chili di materiali e le tre slitte, fummo posati dall’elicottero sul punto 65°25’Lat. N e 38°47’ Long. W dell’Inlandsis. Ora eravamo soli, cominciava l’avventura, in due tiravamo una slitta, pesantissima, la neve era molla, si affondava e si faticava maledettamente! Decidemmo subito di camminare di notte con la neve più dura e dormire di giorno. Scriveva ancora Anna:

– 28 giugno, dormiamo alcune ore, partenza da quota 980, percorsi 12 chilometri e arrivo a quota 1090. La fatica è immane, se i tempi sono questi si può sperare di metterci 50 giorni. Il vento contrario è fortissimo e non si riesce a parlare con il proprio compagno. Dopo 8 ore di marcia durante le quali se ti fermi ti congeli, il vedere il contachilometri è stato tristissimo: 12 miseri chilometri! Massimo (direttore di Sciare e radioamatore) ci manda via radio i saluti di parenti e amici vari. –

Praticamente eravamo come un equipaggio di sei persone in barca mentre sta attraversando un oceano, di neve nel nostro caso. Eravamo uniti nello sforzo comune e nel desiderio di raggiungere la meta, nessuno poteva sopravvivere da solo, eravamo un gruppo e questo era molto importante dal punto di vista psicologico; quando ci riunivamo nella tenda grande si parlava di molte cose, oltre che della rotta e dei problemi tecnici. A volte sorgeva il dubbio che non riuscissimo a farcela, nevicava frequentemente e la fatica non ci incoraggiava. Arrivati a 50-60 chilometri dalla partenza l’orizzonte era 360 gradi, le montagne erano scomparse, eravamo veramente in mezzo ad un oceano di neve e ghiaccio! Dopo i primi giorni di traino avevo capito che dovevamo cercare di arrivare dall’altra parte della Groenlandia impiegando il minor numero di giorni possibile. Quando alla fine della giornata di cammino decidevamo di fermarci e montare le tende, avevo proposto di percorrere ancora 300 metri. Così facendo in dieci giorni avremmo guadagnato tre chilometri, e complessivamente avremmo risparmiato un giorno. Il mio motto era: con i centimetri si fanno i metri e con i metri si fanno i chilometri. I miei conti si dimostrarono esatti, infatti completammo la traversata in 29 giorni anziché nei trenta previsti.

Non sempre era freddo lassù: quando il sole era nel punto più alto, quindi verso l’una, se non tirava vento, era veramente caldo; ci spogliavamo e ne approfittavamo per tentare qualche lavaggio (con neve) e cambiarci la biancheria. Cambiavamo i cerotti ai nostri poveri piedi con le bolle, controllavamo sci e pelli di foca. Intanto si montavano le tende per riposare (come dissi, camminavamo di notte e riposavamo di giorno per trovare neve dura e più scorrevole).

Attorno all’una facevo il punto con il sestante, misuravo cioè l’angolo che il sole faceva con l’orizzonte ed ottenevo la latitudine. La longitudine ere data dai chilometri percorsi segnati sul contachilometri fissato ad una ruota su una delle slitte. La bussola ci dava la direzione, tenendo conto della declinazione magnetica, che a quella latitudine era di 35 gradi.

Entravamo quindi in tenda per cercare di dormire, cosa non facile per il caldo e la luce intensa che filtrava dai teli; sovente usavamo occhiali da sole come protezione. Con il passare delle ore, l’aria rinfrescava, cominciavamo allora a vestirci, prima uno strato poi gli altri, poi entravamo nel primo saccopiuma poi nel secondo. Verso il mattino c’era in tenda un freddo becco, era un dramma se scappava pipì; Gulio aveva inventato il vaso da notte: una busta Salewa vuota poteva servire comodamente per due o tre persone, bisognava solo stare attenti a non versarla!

Le giornate si susseguivano non monotonamente come si potrebbe pensare; la prima bufera di neve ci bloccò in tenda per 24 ore, con goduria per le nostre membra stanche, poi continuammo a camminare anche sotto la nevicata per non perdere chilometri. Intanto senza visibilità si poteva progredire ugualmente, bastava tenere lo sguardo sull’ago della bussola e camminare. Unica fregatura del brutto tempo era non potere usare il sestante per fare il punto, non potevo calcolare l’altezza del sole, tra l’altro salendo di quota non riuscivo più a leggere l’orizzonte artificiale sullo strumento e dovetti abbandonarlo in fondo alla slitta.

Per far trascorrere il tempo velocemente e sentire meno la fatica, avevamo inventato alcuni giochi: dire un proverbio a testa fino ad esaurimento, pensare ad una persona e farla indovinare agli altri, le solite barzellette…

Se tirava vento da dietro issavamo una vela su ogni slitta, e in effetti questo ci aiutò molto, riuscimmo a percorrere in un giorno addirittura 40 chilometri. E poi le foto: non c’era un tramonto uguale all’altro, luci diverse, nuvole striate, controluce da sogno. Alcune note sull’alimentazione: busta liofilizzata per colazione, viveri di cammino a metà giornata: cioccolato, biscotti, latte condensato, barrette alla frutta secca, datteri, pasta di mandorle; busta Salewa per cena, con aggiunta di affettato Rigamonti, parmigiano e come dessert macedonia di frutta. Non male per essere a centinaia di chilometri da qualsiasi centro abitato!

Trascrivo ancora un po’ di diario di Anna, perché è stato scritto a caldo ed esprime molto bene i sentimenti di tutti noi:

“15 luglio, oggi abbiamo toccato il punto più alto della nostra traversata, 2685 metri! Ci sono quasi 3000 metri di ghiaccio sotto di noi; speriamo adesso di andare in piano e poi in discesa. Siamo sulla media dei 22 chilometri al giorno, comunque faticando parecchio. Ogni tanto faccio fatica a farmi andare bene le cose. Qui i nostri piccoli piaceri sono: una sostina, una vela che si gonfia, un biscotto inaspettato che ti ritrovi in tasca, le cenette e, soprattutto, smettere di tirare la slitta.”-

La traversata era durata 29 giorni. Alla fine sul contachilometri della ruota di bicicletta montata dietro la slitta erano comparse tre cifre: 483. Altri 37 chilometri sono stati effettuati soltanto con gli sci dopo avere abbandonato le slitte (poi ricuperate dall’elicottero), a causa di enormi crepacci da attraversare. Ma ormai le montagne erano vicinissime e questi erano stati i chilometri più felici. I più duri, lunghi, infiniti erano ormai alle spalle. Vissuti di giorno o di notte a seconda delle temperature e delle condizioni del terreno, ghiacciato o innevato. L’inizio era stato tremendo. Ogni metro di quel cammino in salita con le slitte ancora sovraccariche era apparso come una conquista, fatta o da fare. Sul piano psicologico non c’era stato alcun attimo di crisi, data l’abitudine di tutti alle situazioni meno facili dello sci-alpinismo e soprattutto dell’alpinismo. Ma la preoccupazione era stata perlomeno pari alla fatica……..

 

Grazie Giangi! Attendiamo ulteriori racconti che appassioneranno sicuramente tutti i nostri lettori!

Liguria Dinamic

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